È dell’ultima ora la notizia che la Maersk, il colosso danese dello shipping, nel secondo trimestre di quest’anno – tra aprile e giugno – ha perso 151 milioni di dollari

(nello stesso periodo dell’anno prima gli utili erano stati 507 milioni).
La causa di tale andamento viene indicata nell’attuale crollo dei noli, passati da 2.261 dollari per teus a 1.175.
La morale in senso generale che emerge da questi fatti è che nel settore marittimo, come in un po’ tutti gli ambiti dell’umana vicenda (in primis economici), le proiezioni lineari producono molto spesso miraggi e fate morgane; inducono a errori che possono rivelarsi disastrosi.
Per questo risulta preoccupante l’idea che va imponendosi come atto di fede, secondo cui i problemi di un’organizzazione si risolvono installandovi al vertice il canonico “uomo solo al comando”. Nel caso nostro, la mitologia ricorrente per cui i porti avrebbero bisogno di presidenti-dittatori (affermazione solitamente addolcita sostituendo il termine “dittatore” con “manager”), non comunità d’impresa e civiche coinvolte nelle decisioni che riguardano le politiche dello scalo, mettendo a fattor comune innanzitutto i rispettivi patrimoni informativi.
Questo perché i fattori da tenere sotto controllo sono molteplici, molto spesso le decisioni significative avvengono altrove, le interdipendenze inaggirabili: ad esempio il gigantismo navale riduce il numero delle navi in viaggio, abbatte i noli e – al tempo stesso – contrae il numero di operazioni fatturabili per le società di servizio alla logistica. In questo ultimo caso, l’origine delle crescenti difficoltà per le agenzie e gli studi professionali che operano nei porti liguri.
Ma “i terribili semplificatori” tutto questo non lo mettono in conto, preferendo praticare la retorica – teatrale e soprattutto pericolosa – del decisionismo.